Industria musicale: il meglio deve ancora venire?

Secondo un outlook GS, il settore crescerà almeno per un altro decennio in tutti i suoi comparti.

Nonostante una congiuntura sfavorevole che – combinando alti tassi di inflazione alla situazione geopolitica in Europa orientale e agli strascichi dell’emergenza sanitaria da Covid-19 – sta causando non pochi problemi a diversi comparti produttivi, all’industria musicale si starebbe parando davanti un futuro più che radioso. A sostenerlo è Goldman Sachs, che in questi giorni ha pubblicato il proprio rapporto Music In The Air, outlook considerato quasi una bibbia dagli investitori nel segmento di musica registrata, editoria e live promoting.

Secondo la squadra capitanata dall’analista Lisa Yang dopo il ventennio di assestamento seguito all’irruzione sui mercati delle nuove soluzioni digitali l’industria musicale si sta preparando a tornare agli antichi fasti, macinando ricavi in crescita almeno fino al termine di questo decennio. Tradotte in numeri, le previsioni di Goldman Sachs si presentano come stime al rialzo a medio – lungo termine (+7% per l’anno in corso, +5% per il prossimo e addirittura +10% per il 2030), con un volume d’affari per il settore destinato a crescere a 87,6 miliardi per il 2022, a 94,9 miliardi per il 2023 fino a raggiungere i 153 miliardi nel 2030.

A differenza di quanto verificatosi negli ultimi due anni, quando – a causa della pandemia – alle crescite a doppia cifra di etichette ed editori si sono contrapposti i tonfi degli operatori di live promoting, il trend in crescita interesserà tutti gli anelli della filiera musicale: oltre all’inevitabile rimbalzo della musica dal vivo (+85,3% nel 2022, con ricavi totali pari a 26,5 miliardi), nell’immediato futuro discografia e publishing vedranno crescere le proprie entrate rispettivamente del 7,7 e 7,2% a quota 27,9 e 7,4 miliardi di dollari.

Lo streaming, secondo Yang e il suo staff, resterà la locomotiva dell’intero settore, con un volume d’affari in crescita quest’anno a 37,8 miliardi destinati a diventare 89,3 nel 2030, quando gli abbonati ai vari servizi digitali – destinati a crescere soprattutto nei mercati emergenti, che all’inizio del prossimo decennio dovrebbero rappresentare la fetta maggioritaria di platea a livello globale – faranno contare complessivamente oltre un miliardo e 200 milioni di unità.
Unico segmento a conoscere se non una decrescita per lo meno un raffreddamento sarà quello del marketing dei cataloghi musicali, che – nonostante “un recente aumento delle acquisizioni di catalogo da parte delle tre major” – sarà rallentato da “un contesto generalizzato di tassi in aumento”.
“Il mercato dei DSP non mostra alcun segno di saturazione”, chiarisce il rapporto di Goldman Sachs: “Prevediamo che la spesa dei consumatori per la musica rimanga resiliente in un contesto macroeconomico più debole e meno stabile.

Confrontando lo streaming musicale con i servizi di video on demand [come, per esempio, Netflix] in termini di prezzo, penetrazione, abbandono e utilizzo, riteniamo che – nel complesso – lo streaming musicale dovrebbe performare meglio di un DSP video in un ambiente macro più debole o in una potenziale recessione”.
Sostanzialmente d’accordo con le previsioni di Goldman Sachs – che, è bene ricordarlo, ha interessi nel settore in qualità di consulente di Universal Music per l’IPO dello scorso anno e come investitore in Spotify e Tencent Music – è Merck Mercuriadis, fondatore e ceo di Hipgnosis e protagonista assoluto sul panorama del publishing internazionale da almeno due anni a questa parte. Intervenuto in questi giorni alla Canadian Music Week di Toronto, il cinquantottenne imprenditore originario del Quebec ha confermato come la futura crescita della platea di utenti di DSP rappresenterà il driver di crescita per tutto il settore. “Quando presentai il mio business plan alla comunità di investitori dissi che il mio sarebbe stato un ottimo modo per fare soldi, perché Spotify sarebbe passata dall’avere 100 milioni di abbonati a 200 e poi a 300, e così via. Oggi siamo a 500 milioni”, ha spiegato: “Alla fine di questo decennio, saranno più di un miliardo. E all’inizio del prossimo si arriverà a due miliardi. E i soldi arriveranno da tutte le parti del mondo”.

Eppure Spotify, che nel segmento è il player principale a livello mondiale, nonostante gli ambiziosi piani comunicati nel corso del recente meeting dedicato agli investitori, sui mercati – da gennaio a oggi – ha fatto registrare performance tutt’altro che positive. “La gente sta guardando i dati di Spotify e non quelli dello streaming nel suo complesso, e si sta facendo l’idea che il comparto dei DSP si stia stabilizzando”, ha chiarito Mercuriadis, traendo le stesse conclusioni di Yang: “La cosa importante è considerare l’offerta, cioè l’accesso a questa quantità incredibile di musica che offrono i servizi di streaming a 10 dollari al mese, che è l’unica cosa che conta. Anche in uno scenario con tassi di interessi altissimi e inflazione massiccia questo tipo di abbonamenti saranno le ultime cose alle quali la gente rinuncerà. Il discorso di Netflix, che ha perso abbonati, è diverso, perché Netflix è uno di quei sei o sette servizi che completano l’offerta dell’audiovisivo. Ma un abbonamento a Spotify o ad Apple è una di quelle cose destinate a rimanere, a prescindere dal costo della vita. E il valore di questo aspetto è enorme”.